Una Biennale con i piedi per terra
La Biennale di Architettura di Venezia, curata dalla scrittrice e architetto Lesley Lokko, volge al termine (26 novembre). A distanza di alcuni mesi possiamo pertanto fare delle riflessioni, partendo da ciò che dall’inizio risultava evidente anche a uno sguardo sommario: la materialità.
Materialità come display di materiali e tecniche costruttive evocati dagli allestimenti, soprattutto ai Giardini nei Padiglioni nazionali, che in tempi di digitalizzazione e smaterializzazione sarebbero piaciuti ai teorici dell’architettura e del design vernacolare degli anni Sessanta e Settanta. Dal “laboratorio del futuro” proposto dalla curatrice – con la messa in luce programmatica dell’Africa – ciò che emerge è anche un’esplorazione del passato e un ritorno alle forme prodotte dalle culture antiche e indigene; con l’architettura ridotta molto alla sua fisicità e ai suoi elementi allo stato grezzo: legno, argilla, lamiera ondulata, terra, pietra, tessuti, paglia e così via. La cornice è quella del pianeta e della natura, continuamente evocati come temi giustamente al centro delle preoccupazioni legate al cambiamento climatico (decarbonizzazione e delocalizzazione sono i pilastri concettuali dell’intera mostra) ma anche delle politiche di riuso dei materiali e del loro corretto inserimento in cicli sempre più virtuosi.

Imparare dai materiali organici

Si è vista molta terra alla Biennale di Architettura di Venezia, a partire dal Padiglione Brasiliano, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale, con il suo pavimento in terra battuta usata anche come basamento espositivo. L’installazione, titolata non a caso Terra, celebra le origini del paese e le proprietà del suolo antropologico dell’Amazzonia dall’elevata fertilità e capacità di trattenere il carbone vegetale, quindi importante per mitigare i cambiamenti climatici.

Terra cruda e micelio sono al centro di In Vivo, l’installazione al Padiglione Belga che è un esperimento condotto attraverso l’uso di materiali organici per ripensare l’architettura in un mondo di risorse limitate. La possibile risposta al problema da parte dei curatori è quindi il potere rigenerante dei funghi, raccontato nelle fasi del suo processo e restituito sotto forma di un padiglione nel padiglione formato da pareti di pannelli fibrosi, dalle nuance di pietra, dove immaginarsi immersi in possibili scenari abitativi.



La terra è anche il punto focale dell’installazione Counteract di Francis Kéré, architetto originario del Burkina Fasu vincitore l’anno scorso del prestigioso premio Pritzker, da sempre attento a sostenibilità e genius loci. Qui un muro grezzo, color ocra bruciato dal sole, che delimita l’area espositiva è decorato con finestre circolari a forma di bocche di vasi di terracotta con all’interno dei video dedicati all’architettura vernacolare dell’Africa occidentale.

Spazi esperienziali per l’upcycling

In altri padiglioni sono esposti gli strumenti, le strutture e le materie prime della costruzione, attirando l’attenzione sugli elementi costitutivi alla base dell’architettura per promuovere principi di riuso e edificazione circolare in tandem con la responsabilità sociale.
Il tema del riuso, ma anche della cura, è al centro delle riflessioni della Germania che smonta letteralmente il padiglione, scavandone il pavimento fino alle fondamenta. Quel che viene mostrato è una sorta di cantiere, rappresentato attraverso una serie di lavori di manutenzione e attività di workshop dove risultano protagonisti i materiali di spoglio dei padiglioni della Biennale precedente, riutilizzati per ricavarne altro di utile.
Anche il Giappone incoraggia l’interazione con i materiali ed esplora il modo in cui le persone si collegano e si relazionano con uno spazio fisico, includendovi gli strumenti, tanto che al piano inferiore del Padiglione sono messi in bella mostra, ad esempio, attrezzi in legno e pietra. Il fulcro del Padiglione Francese è invece The Ball Theater, uno spazio modulare dall’estetica “tecno-punk” per spettacoli live, aperto a residenze-laboratori di artisti, ricercatori e studenti, circondato da vari oggetti trovati e riciclati.



Espressività della plastica post consumo
Parla di dipendenza dalla plastica il Padiglione degli Stati Uniti, per riflettere su come un materiale un tempo rivoluzionario imponga oggi di rivederne l’approccio alla luce della quantità smisurata di rifiuti. In Everlasting Plastics, tra gli altri autori, è interessante il contributo del designer Norman Teague con un metodo di frantumazione dei polimeri trasformati in una pasta morbida con cui realizzare, per estrusione, dei vasi che si rifanno alla tradizione artigianale del colombino o della tessitura di cesti. Riconducibili ad una scala più ambientale che architettonica sono poi una serie di assemblaggi di materiali di protezione di uso comune per mostrare quel che passa inosservato negli spazi interni – rivestimenti, gomme, guarnizioni, profili di alluminio, silicone, schiuma, pannelli di cemento, bordi smussati – che potrebbero ispirare designer in cerca di idee.


Anche l’artigianato è un tema ricorrente in diverse mostre e riaffiora, nella sua versione più folkloristica, nell’interessante “biblioteca” itinerante dell’architettura indigena Sámi allestita nel Padiglione Nordico. Un assemblaggio di libri e materiali, tra cui pelli di renna, legname sbozzato, maglioni lavorati a maglia, corde e sci, espressione della tradizione costruttiva e progettuale di questo popolo.

In chiave più tecnologica, la toilette a secco utile al compostaggio presentata dalla Finlandia – una soluzione tipica di servizio igienico in località remote e cottage estivi a quelle latitudini – tra arredi di Alvar Aalto, mette in discussione l’attuale sistema igienico-sanitario basato sull’acqua, con l’intento di ispirare gli architetti verso soluzioni alternative, anche su scala urbana, per servire meglio il mondo in cui abitiamo.







