Mauro Olivieri designer: le “attitudini”, i progetti e il futuro del design
Mauro Olivieri designer: lo abbiamo incontrato ed intervistato in merito alle sue “attitudini”, i suoi progetti e sulla sua visione del futuro del design.
Tra i punti fondamentali della tua filosofia progettuale da sempre c’è creatività e tanta ricerca. Ce ne vuoi parlare?
“Non mi sento di parlare di creatività unita alla ricerca ma più precisamente di immaginazione dove l’una non può esistere senza l’altra. Parlando di creatività spesso c’è il rischio di eludere il grande processo di sintesi che mentalmente è richiesto per discernere un’idea da un’altra. Immaginare è la sintesi di una visione che si concretizza nel proprio pensiero e che può diventare reale grazie alla ricerca. Quasi sempre parto dalla ricerca per immaginare un processo fatto di progetto, per trovare una sintesi e crearmi recinti controllati nei quali operare, nella risolutezza di parametri autocostruiti di analisi e autodisciplina a cui mai venire meno. Questo è il metodo, consolidato ormai, sul quale scientificamente costruisco l’immaginazione che dopo diventa progetto in tutte le sue parti, compresa l’opportunità di realizzarlo solo se serve o aiuta a dire qualcosa in più e meglio.
Leggi anche Stile coastal: il trionfo dell’Oceano in casaConsidero necessario per me questo processo come consapevolezza del mio ruolo di costruttore di opportunità reali, sapendo bene che ogni mia intrusione nella società con un progetto deve assolutamente essere compatibile con la sua necessità di esistere.
Cerco fermamente di non cadere nell’istinto egocentrico del progettista, quello dell’esercizio di stile a tutti i costi come celebrazione di sé stesso.”
Parlami dei progetti di cui sei più orgoglioso e quali sono gli elementi che maggiormente li contraddistinguono?
“Tutti i miei progetti sono frutto di una storia intima e tutti mi hanno aiutato a crescere per crearne altri, giorno dopo giorno. Importante per me è non innamorarmi del progetto, progettare è il mio mestiere, non credo nel progetto nato per caso o ottenuto da solo un’idea. Penso che ci siano dei periodi che sono stati momenti di sviluppo del mio pensiero e adesso è uno di questi. Certamente progettare la casa di Gerad Gayou a Siviglia è stato un momento forte per me, per via della bellezza della crisi che mi ha imposto di avere, per questo ho amato tanto quel progetto. Tutte le volte che non mi sento in crisi penso che non sia un buon momento.”
La casa si costruisce intorno a una persona, ci racconti la Casa Olistica?
“La casa è come un vestito e non dobbiamo dimenticare che non siamo chiamati a creare case ma a identificare architetture giuste per il nostro cliente. Bisogna annullarsi il più possibile poiché non saremo noi ad abitarle, ma considerare che un progetto di un interno o esterno deve vivere di equilibri e necessariamente sottostare alle regole che mi sono dato per arrivare a dare risposte corrette. L’importante nel mio lavoro non è accontentare il cliente o meglio non considerare il suo consenso come il raggiungimento del risultato, prima di tutto devo essere io il giudice di me stesso e poi arrivare a una reciproca soddisfazione.
Il progetto Olistico dell’appartamento di Sanremo, che dura ininterrottamente da quasi 20 anni, è il mio rifugio di tutte le occasioni per sperimentare insieme al committente che lo abita, dove la sintesi di ogni ricerca trova la sua realizzazione e dove ci è consentito avere più idee riguardo alla stessa esigenza. È un luogo di missione nel rispettare e seguire il cambiamento del tempo che passa, sapendo che li dentro niente è definito in eterno ma che costantemente, anche mese dopo mese in alcuni periodi viene ripensato in alcune sue parti. Avere questa opportunità consente di rielaborare e tenere sempre vivo il mio pensiero progettuale. Avere una visione olistica ormai possiamo dire sia fondamentale ma soprattutto è importante mettere in relazione le azioni, i gesti, le dinamiche sociali che si attivano dentro un luogo famigliare e i cambiamenti nel menage che a volte portano a possibili scompensi che devono essere controllati senza cadere nel senso deterministico che e proprio dei processi presi singolarmente e non collegati.”
Potrebbe interessarti Stile siciliano: i profumi del Mediterraneo per arredare casa
Come descriveresti il tuo stile e il tuo lavoro come designer?
“Io non so capire se ho uno stile anche se questa parola mi fa paura perché essere circoscritto in uno stile è limitante, significa essere connotabile nell’esercizio di stile di cui parlavo prima, mi toglie dal mio ruolo di mestierante dove non può esistere uno stile. Parlerei di attitudini forse, quei segni consolidati o processi utilizzati che emergono come comune denominatore, anche se io cerco sempre di starci Il più lontano possibile perché cambiando il mio interlocutore è inevitabile che le variabili cambiano ogni volta le carte in tavola su cui giocare.”
A tuo avviso, qual è l’obiettivo di un food designer?
“Progettare un cibo o un atto alimentare o un prodotto attiene agli stessi principi che regolano il progettare una sedia o un tavolo o un portacenere o uno stadio. Ma il processo è più complesso: ciò che si progetta nel food lo mettiamo dentro di noi, una sedia no, per un prodotto alimentare la responsabilità è più alta e le variabili, le conoscenze devono essere tantissime, diverse e soprattutto alcune ancora da scrivere. Un food designer deve avere tanta conoscenza della tecnologia, delle preparazioni, deve conoscere la chimica e la fisica per disegnare un nuovo prodotto.”
In quanto professionista creativo, che ruolo pensi che giochi la creatività nell’innovazione?
“Innovare è nel DNA di chi si approccia a fare il mestiere di progettista. Dunque mi viene facile dire che siamo fisiologicamente attivi nella proposizione del nuovo, a patto che non si cada nel tranello del ” l’ho fatto io dunque va bene ed è giusto”. Non bisogna dimenticare che nessuno è portatore di verità assoluta, la verità non può essere solo la propria o celebrazione del proprio ego.”
In che modo si sta evolvendo, oggi, il settore del design e dell’arredo, vista anche la pandemia di Covid-19, che ci ha fatto riscoprire l’importanza della casa durante il lockdown?
“La casa da sempre assolve al ruolo di rifugio, anche se sembra che in questo ultimo periodo lo abbiamo riscoperto. Certamente abbiamo capito i punti di forza e di debolezza delle nostre abitazioni, siamo più consapevoli del ruolo dello spazio ottimizzato al massimo e forse abbiamo anche capito se le dinamiche famigliari sono performanti o no. In questa prospettiva dobbiamo essere capaci di guidare, come progettisti, al recupero di alcuni spazi, alla ergonomia vitale che si bilancia su diversi livelli in funzione dei ruoli e delle fruibilità. Con onestà progettuale, possiamo aiutare e dare risposte etiche e sostenibili veramente. Risolvere prima e poi dare bellezza alla soluzione, questo il mio dogma. Ricordo un lavoro recente che richiedeva la necessità di aggiungere una stanza all’appartamento. Dopo un lungo periodo di analisi della pianta ho capito che la soluzione stava solo nello spostare una porta di 90 gradi. Ecco questo per me è stato un grande progetto, che ha comportato per quella famiglia un dispendio economico minimo rispetto alla soluzione prospettata da un altro progettista che proponeva una gran quantità di demolizioni e ricostruzioni.”
Quali tendenze pensi che vedremo in futuro?
“Spero quella della risolutezza del pensiero pulito e dell’ attenzione ai bisogni veri; abbiamo un ruolo fondamentale noi progettisti quello di mettere al mondo cose, qualunque esse siano, che impattino il meno possibile, che non creino disagi futuri. Quando devo capire se sono sulla strada giusta vado in un luogo a me caro un piccolo paese dove l’essenziale respira di perfezione. Dobbiamo cercare veramente l’essenziale, in tutto.”
Qual è la “cosa” più contemporanea, forte e promettente che si manifesta a tuo avviso sulla scena del design contemporaneo?
“Non so veramente dare una risposta precisa, posso dire di essere attratto dal principio dell’autoproduzione o meglio della produzione in serie non più massificata. La replicabilità oggi forse non e più sostenibile e poco consona ai criteri di consumo del futuro. L’industria non deve scomparire ma deve provare una conversione, un avvicinamento meno sterile nei confronti del consumatore non mettendo sul mercato oggetti la cui produzione non sia sostenibile. Ci sono già aziende che si pongono domande, ma in futuro questa deve diventare una scelta consapevole più ampia in modo da diventare forza propositiva e orientare le scelte del consumatore in modo corretto.”
Una domanda che è anche un po’ una provocazione, esiste ancora uno stile italiano nel design?
“Per me non c’è mai stato veramente uno stile, piuttosto parlerei di epoche che hanno lasciato un segno indelebile di energia e coraggio. Figure che hanno sentito il senso del loro ruolo come una missione di dialogo con il processo progettuale nel tempo che cambiava, quasi sempre anticipandolo e offrendo una visione. Mi mancano e avrei voluto veramente essere parte di quei movimenti dove dialogare connettendosi in macro sistemi era fisiologicamente necessario nel confronto. Se non c’è uno stile italiano possiamo però dire che c’è un senso Italiano che è un po’ come un umore che traspare dalle cose progettate e questo dobbiamo saperlo coltivare in continuazione.”
credit image cover by Press office – photo by Lido Vannucchi