Una casa comune
We Mediterranean è un’architettura mobile, un allestimento riconfigurabile e itinerante. Un avamposto culturale per discutere i temi dell’abitare in una cornice geo politica fragile dove progettare insieme può fare la differenza.

C’è molta visione dietro al progetto We Mediterranean, un’installazione vista lo scorso aprile durante la Design Week nel tunnel 50 di Drop City, quindi a maggio nel contesto della Milano Archweek. L’intero progetto nasce per ridare centralità al tema dell’architettura a partire dall’abitare ed è anche una operazione di diplomazia culturale che ci parla di sostenibilità sociale poiché mette insieme persone e luoghi, cercando il dialogo e l’ascolto. Ne parliamo con Paola Carimati, architetto di formazione e nota giornalista specializzata nel design, che insieme a un gruppo di lavoro ha ideato e lanciato il progetto e sta ora pianificandone le tappe e le declinazioni future.

We Mediterranean è anzitutto un collettivo multidisciplinare nato da una visione e una sorta di urgenza. Ce ne riassumi l’origine?
Il progetto nasce circa un anno fa quando mi sono trovata a riflettere sul senso dell’architettura e dell’abitare in tempi di crisi climatica, di immigrazione. In quel frangente ho incontrato il designer libanese Samer Alameen, basato a Milano, che stava organizzando un festival sul design nel suo paese e voleva lavorare sul tema dell’artigianato. Quindi il progetto parte da Beirut dove con il sostegno della Fondazione Cologni Mestieri d’Arte, abbiamo realizzato i primi due workshop con i progettisti da me invitati. Ci siamo ritrovati per pensare a un’idea di casa che assecondasse anche il movimento dei corpi nello spazio, che potesse quindi migrare nello spazio esattamente come fanno le persone. Ora ne parliamo in termini di un avamposto culturale.
È nato un archetipo di casa comune, quella che poi abbiamo portato a Milano, realizzata con l’aiuto degli artigiani locali, concepito per migrare lungo le coste del Mediterraneo. Come i rifugiati, le persone che scappano dalle guerre o dagli effetti dell’impatto della crisi climatica…

We Mediterranean nella tappa milanese si componeva di tre elementi: un teatro per l’incontro, il dialogo e le performance, realizzato in tubolare metallico e vestito di tessuti ricamati dalle donne di Ajialouna (la ONG nata da un’idea di Lina Zaim Dada, social activist e mecenate libanese che ha come obiettivo quello di promuovere l’empowerment femminile e rafforzare il ruolo della donna nella comunità) realizzati durante il primo workshop e che verranno reimpiegati in futuro per immaginare altro. Una torretta di 4 metri per i piccioni, simbolo di accoglienza allargata e di pace; una pensilina che ombreggiando, si prende cura della comunità, una foresta di sterlizie a punteggiare la narrazione. Il layout enfatizza il tema dell’intersezione, fondamentale – puntualizza Paola Carimati – perché restituisce l’incrocio e la contaminazione fra le culture del Mediterraneo, quelle delle mani legate all’artigianalità. Anche l’urgenza di ripensare gli spazi ombreggiati: le tende mollemente appoggiate e drappeggianti sono un chiaro rimando all’immagine delle facciate degli edifici libanesi.
Dopo la design week i tessuti sono tornati a Beirut per essere impiegati nella We Design Beirut (posticipata dall’ottobre dello scorso anno per i noti fatti di cronaca), per cui durante la Milano Archweek la struttura è cambiata pur rimanendo sempre accogliente attraverso i nuovi tessuti (donati da aziende come Rubelli, Colony, l’Opificio, Meta) offrendo anche un saggio della sua versatilità.
Insieme a te ci sono dei compagni di viaggio che costituiscono un team di lavoro…
Avendo nel corso di questi anni intercettato diverse progettualità, soprattutto tra i giovani, e pensando a un’idea d’abitare universale, quindi anche archetipica, ho scelto diversi studi la cui autorialità dovrebbe restituire questa dimensione. Partiamo dal lavoro del duo Piovenefabi che riprendono il tema delle folies, dei padiglioni temporanei come luoghi che vengono attraversati da generazioni diverse, dai bambini agli anziani; Studio Ossidiana che lavora sul tema della coesistenza per definire spazi e oggetti che possono essere abitati sia da uomini sia da animali; quindi il contributo di Azzurra Muzzonigro che con l’associazione di promozione sociale Sex and the City promuove la ricerca sul gender quindi di una citta a misura di donna ma anche di generi diversi. Poi ho coinvolto Matilde Cassani che lavora sulle architetture molli quindi sul tessuto come materiale di connessione; Francesca Lanzavecchia, interessata al cambio di scala nell’oggetto che diventa manifesto anche delle urgenze del contemporaneo (suo è l’artwork usato come immagine della locandina del progetto).
La loro unione restituisce una dimensione corale, universale, dove tutte le fragilità del contemporaneo sono rappresentate. E questo si ricollega al fatto che l’abitare domestico oggi più che mai è diventato lo specchio della complessità del contemporaneo: nella scelta dei materiali, della disposizione degli spazi, della luce, degli attraversamenti.
La peculiarità del progetto è poi la sua itineranza…
Stiamo lavorando per portare We Mediterranean alla Design Week di Barcellona, dal 16 al 26 ottobre, dove l’idea è di interagire con le associazioni locali attivando, come a Milano, una serie di incontri per trasformare lo spazio anche in un luogo di dibattito (tra i temi discussi come migliorare il sistema di accoglienza nei centri perché almeno tra i progettisti c’è poca cultura in questo settore). Planando di porto in porto, di città in città, e avvalendosi della collaborazione di altri artigiani, questa casa si compone di un vocabolario di tante mani e di tante parole diverse. E di tante estetiche diverse, dimostrando che a partire dall’architettura si può costruite una casa comune. Il tutto serve a parlare di temi caldi quali migrazione, accoglienza, inclusione, riscoprendo la centralità del valore dell’architettura, restituendole se vuoi il suo ruolo cardine.
Nel 2050 si stima che 250 milioni di persone si muoveranno lungo le coste del Mediterraneo e questi numeri ci impongono non solo di ripensare i termini dell’accoglienza ma anche la dimensione dell’abitare. Provare anche a immaginare un modo di abitare in condizioni di precarietà, provvisorietà.
Progettisti, attivisti, performer e artigiani insieme, uniti nella comprensione del comune linguaggio dell’architettura, provano quindi a declinare le parole di un vocabolario dell’abitare in cui il dialogo traduce la scienza delle costruzioni in nuovi manufatti: strutture leggere, ricami e intrecci. Per gettare le basi di una comunità creativa che trova nell’incontro e nella pace un rinnovato senso di condivisione e di progetto.
Noi non vogliamo, continua Paola Carimati, entrare nella questione politica, quanto sensibilizzare le persone a partire dal luogo che stiamo costruendo, e devo dire che il feedback ricevuto è positivo. A Milano, ad esempio, durante gli incontri pubblici abbiamo avuto molti studenti di diverse scuole che stanno lavorando sull’accoglienza ai rifugiati e hanno utilizzato il nostro padiglione come punto di incontro. Più difficile è trovare chi può sostenerci economicamente visti i costi da affrontare.
La rotta tracciata per il 2025 porterà il progetto a Tunisi, Atene e Istanbul per chiudere questa sorta di Grand Tour a Lampedusa in occasione di Agrigento-Lampedusa Capitale della Cultura a cui verrà donata la struttura. Nell’anno che coincide anche con altri due appuntamenti importanti come la Biennale di Architettura di Venezia e la XXIV Triennale di Milano, che tratteranno in modo non dissimile i medesimi temi, e dove sarà altrettanto auspicabile la presenza di We Mediterranean.







