Verso un Design Relazionale
Siamo costantemente connessi, e non solo attraverso i nostri dispositivi elettronici, ma con gli spazi che abitiamo, gli oggetti che usiamo, le persone con cui interagiamo. Le barriere tra fisico e virtuale si sono assottigliate, forse si sono fuse, o addirittura non sono mai esistite, e definizioni consolidate (design di prodotto, design degli interni, design dei servizi, ecc.) hanno perso di significato all’apparire di nuovi paradigmi. Allora ha senso che il design si occupi ancora di produrre semplicemente oggetti? L’approccio Relazionale al Design invoca uno sguardo olistico rispetto a tutto ciò che mettiamo al mondo. Tutto l’ecosistema degli output del designer deve essere pensato in ottica relazionale per migliorare la qualità della vita e il rapporto tra uomo e ambiente.

Una decina di anni fa stavo tornando a casa dopo una passeggiata notturna, era primavera inoltrata, l’aria non era ancora afosa e il cielo era sereno, si vedevano le stelle. Ad un certo punto una, particolarmente luminosa, attirò il mio sguardo, la sua luminosità cresceva con il passare dei minuti. Passai l’intera notte a guardarla, fino a quando ad un certo punto si spense. Era morta una stella, e un evento accaduto migliaia di anni prima aveva condizionato quella mia serata e probabilmente tutte quelle successive. Un evento accaduto migliaia di anni prima era in qualche modo contemporaneo, portandomi a ragionare sul senso del tempo e dello spazio, influenzando ciò che avrei fatto da lì in avanti. Avevo da poco concluso l’università e quella notte capii che, da neo-laureato in design, non avrei voluto disegnare spazi e oggetti solo belli o solo funzionali, avrei voluto progettare con un approccio che mettesse insieme quanto più possibile la complessità del mondo in cui viviamo.
Ci tenevo ad inaugurare la rubrica “Visioni” con questo aneddoto personale perché credo che per parlare di futuro e di innovazione sia necessario innanzitutto ridefinire il nostro posto nel mondo e promuovere la necessità di guardare al design in maniera nuova e allargata, non solo come disciplina che supporta la produzione di manufatti dall’elevata qualità estetica, ma come Dasein, come espressione completa dell’esistere.
Il Design Relazionale progetta cose

Viviamo in una società in costante mutamento, in cui le certezze sedimentate nel corso dei secoli si stanno sgretolando in fini granuli di materia. Negli ultimi vent’anni, la scienza ha fatto scoperte incredibili, esplorando in profondità il comportamento umano. La nuova realtà che ci viene presentata mette in crisi la nostra percezione di cosa essa sia. Come afferma Carlo Rovelli, interpretandola come sistemi di relazioni piuttosto che di oggetti, la realtà dello spazio si sgrana, il tempo perde significato e le cose possono essere ovunque e in nessun luogo.
L’essere umano non può più essere considerato come una presenza estranea e dominante nella gerarchia delle relazioni con gli spazi che abita. Al contrario, esso è elemento integrato che dovrebbe agire attraverso processi ecologici, aprendosi a interpretazioni sistemiche e interconnessioni tra entità diverse e mondi apparentemente distanti, come quello animale, vegetale e degli oggetti.
Per affrontare questa sfida, è necessario ripensare l’approccio al progetto, spostando il centro di interesse dalla produzione di manufatti e servizi al progetto delle relazioni, partendo da quelle esistenti tra tutti gli elementi in gioco nel campo che chiamiamo realtà.
Il Design Relazionale, prima puntata di questo viaggio, prova a fare esattamente questo, progettare in maniera sistemica, andando oltre il cosiddetto human-centred design per abbracciare un campo ampio che comprenda non solo ciò che è “essere umano”, ma anche tutto il resto di ciò che è animato, e ciò che apparentemente non lo è, producendo quelle che Ron Wakkary definisce genericamente, ispirandosi al concetto di “matter of concern” di Bruno Latour, cose, spostandosi verso un design eco-centrico.
Le cose non sono necessariamente oggetti, ma attraverso il significato generico del termine da un punto di vista semantico e semiotico, definisce quelle istanze non definite, proprie di un approccio che non ha l’output fisico come goal.
Il Design Relazionale progetta cose non finite
Ciò che punta a produrre il Design Relazionale, infatti, non è il prodotto finito, ma un innesco, una miccia, una traiettoria che attivi nuove idee, nuovi intrecci, un qualcosa che sia pensato per includere e non escludere, che si sviluppi, per usare una metafora cara a Jung prima e a Deleuze e Guttari poi, in forma rizomatica, in modo che quello che appare sia solo espressione temporanea di una realtà intrecciata priva di gerarchie imposte, un sistema cibernetico, per dirla alla Gregory Bateson. Wakkary chiama questi intrecci traiettorie nomadi, per pensare a un design che abbraccia la relazionalità e l’espansività, accettando che il design sia plurale, una serie di alternative concomitanti, conflittuali e sovrapposte. Prende rinnovato valore allora anche l’idea del non finito michelangiolesco che si concretizza anche in una visione spaziale di ambienti lasciati nudi ma riabilitati e che Luciano Crespi chiama Avanzi.
I personaggi del gioco relazionale – il campo dialogico
Al progetto relazionale, in quanto sistemico, partecipano non solo i progettisti e gli esperienti, ma una moltitudine di personaggi, consapevoli e inconsapevoli. Il Design Relazionale è un processo dialogico, in costante divenire, che include tutti gli esseri, animati ed inanimati. Gli oggetti stessi, sono quindi parte del processo. Ripensare alla progettazione attraverso un’ontologia relazionale significa quindi scardinare l’idea stessa di creatività classica intesa come prerogativa del genere umano.
Si tratta di operare un cambio di punto di vista in cui ciò che progettiamo non viene fatto dall’uomo per l’uomo ma si inserisce in una dinamica più complessa, grammatica, dove attraverso un’ottica relativista il soggetto muta e l’interpretazione varia nel rapporto tra esso e i componenti in gioco (oggetto, predicato, complemento, ecc).
Il gioco quindi consiste nel creare un terreno comune di comunicazione tra soggetto, oggetto e contesto, tra oggetto che diventa soggetto e così via, in un campo che comprenda la natura e l’artificio.
Questa prospettiva sostiene infatti che i soggetti e gli oggetti siano intricatamente interconnessi e non possano essere compresi o delineati in modo isolato, perché se è vero che creiamo il mondo in cui stiamo, esso esiste anche quando non ci siamo.
Una panchina progettata per stare in una piazza vive delle persone che la usano, certo, ma anche del sole che la scalda, della pioggia che la bagna, del vento che la accarezza, delle foglie che vi si posano in autunno, o degli uccelli che beccano gli avanzi di cibo abbandonati sopra. Un progetto relazionale deve tenere conto di tutti questi fattori e non solo dell’istante di presenza da parte di un essere umano.

Progetto Multimediale, Progetto Multistatale
La tecnologia allora, acquisisce un ruolo centrale, poiché capace non solo di creare quel ponte comunicativo con ciò che ci circonda ma di elevarsi a nuovo attore nel campo di una realtà che possiamo definire estesa, andando a riprendere quanto affermato da Heidegger nel saggio La questione della tecnica dove si esprime l’idea che essa non sia da considerarsi un semplice mezzo ma più come entità disvelatrice capace di creare una relazione neo-animistica con le altre entità.
Considerando ciò che ci circonda come un insieme di dati, ad esempio, grazie alla tecnologia possiamo interpretare e scegliere se adattare il nostro comportamento o lo spazio per migliorare la nostra condizione e quella delle altre entità presenti.
Il progetto relazionale è quindi sempre un progetto multimediale, sia perché tiene conto della tecnologia e delle sue evoluzioni, tanto perché comprende più di un medium alla volta; una tecnologia, infatti, può comprendere in sé moltissime relazioni diverse contemporaneamente, con umanità e non umanità diverse, in contesti diversi.
Progetti Multistatali
Ampliando questo concetto, ogni progetto può anche essere multistatale, ovvero essere pensato nel suo utilizzo in diversi stati, in una similitudine chimica che permetta di pensare a situazioni solide, liquide (si veda Bauman) o addirittura aeriformi, rapportandosi ai diversi modi di utilizzo di un oggetto o uno spazio.
Se da un lato, infatti, una cosa ben progettata dovrebbe suggerire il modo di essere utilizzata attraverso le proprie affordances, ovvero il sistema di qualità fisiche che suggeriscono a un essere umano le azioni appropriate per relazionarsi ad essa, ciò non esclude la presenza, contemporanea, di moltissimi altri stati che concedano relazioni corporee molto diverse, sempre con la stessa tipologia di elemento, dettate da un contesto culturale, emotivo o geografico.
Prendiamo ad esempio l’oggetto sedia. Il suo stato solido prevede che una persona ci si sieda sopra, che utilizzi il piano orizzontale per sedersi e il piano verticale o leggermente inclinato per appoggiare la schiena; l’eventuale presenza di braccioli consente di tenere riposate le braccia e così via. Ora, sono certo che alla maggior parte dei lettori sia capitato di utilizzare una sedia per altri scopi, ad esempio appendere i vestiti nel caso in cui sia posizionata geograficamente fuori dal contesto usuale, comeo in camera da letto. Il suo stato liquido comporta una decodificazione e reinterpretazione delle sue componenti, modificando l’utilizzo primario per cui quella sedia è stata progettata e prodotta. La stessa sedia può diventare anche un riparo per un animale domestico durante un temporale, o una capanna immaginaria per un bambino grazie al passaggio ad uno stato aeriforme che ne modifica la percezione di scala.
Gli oggetti poi sono vivi perché portano traccia e memoria delle relazioni con altri corpi, la loro forma si modella, la loro pelle si macchia, si scalfisce, cambia colore. Anche di questo deve tenere conto un progetto relazionale, deve progettare il tempo.
Un esempio di tecnologia applicata in questo senso può essere la sfera degli smart finishing, come le vernici termocromiche che possono rivelare forme e colori al cambiare della temperatura.


Queste caratteristiche intrinseche al mondo che abitiamo, invece, portano spesso il design tradizionale a progettare annullando possibili utilizzi alternativi degli oggetti da parte di utenze indesiderate.
È il caso di molte panchine posizionate negli spazi pubblici che, pur essendo a tutti gli effetti pubbliche, presentano dissuasori per evitare che i senzatetto possano sdraiarcisi sopra. Un esempio eclatante è la Camden Bench pensata appositamente per contrastare comportamenti criminali e antisociali. La sua forma irregolare (e volutamente scomoda) impedisce ai senzatetto di dormirci sopra, l’assenza di anfratti rende impossibile il traffico di droga, il trattamento waterproof della verniciatura fa sì che i graffiti non attecchiscano. Ma la capacità degli oggetti di cambiare stato porta a risultati inattesi; infatti la panchina, per la sua morfologia è apprezzata dagli skateborder perché permette di realizzare alcuni trick.


Questo approccio al progetto, che rientra nella sfera dell’architettura ostile, segue un approccio tipicamente human-centered che tende ad escludere la non-umanità.
Un altro esempio è costituito dai dissuasori per i piccioni che si vedono posizionati su tantissimi cornicioni dei palazzi per evitare che gli uccelli possano occupare spazi pensati esclusivamente per l’uomo. La natura e il mondo animale hanno però tanto da insegnare e spesso ci sorprendono per la capacità di adattarsi al costruito antropico.

Le dimensioni del progetto relazionale
Quando si progetta in maniera Relazionale, bisogna attingere giocoforza ad un vocabolario diverso da quello canonico, dove si tengono in considerazione fattori e dinamiche spesso poco valorizzate in processi di design tradizionali.
Il primo aspetto, e di sicuro tra i principali è il tempo. Spesso i designer progettano pensando a ciò che stanno immaginando come qualcosa di statico e cristallizzato al momento della messa in opera o dell’acquisto o dell’esperienza limitata. Il tempo è una dimensione spaziale e influenza il modo in cui ci relazioniamo. Provocatoriamente come può essere una scrivania lunga 2 ore?
Altri fattori da tenere in mente sono:
- la quantità: a seconda della scala del progetto ragionamenti sulla quantità possono essere intrapresi rispetto al numero di materiali usati, di colori, di oggetti dello stesso tipo e così via;
- la disponibilità: intesa sia rispetto alla capacità di ogni componente a svolgere la propria funzione allo stato solido che agli altri stati, sia la disponibilità fisica dei manufatti. Bisogna avere in mente quindi le necessità primarie e latenti che intende soddisfare il progetto, cercando di offrire l’adeguato numero di cose o eventualmente sufficienti alternative;
- l’età: sia in riferimento all’età dei possibili utilizzatori che delle componenti del progetto (tutto nuovo?, tutto usato?, un mix?);
- la distanza: ogni progetto può avere diverse distanze di utilizzo sia in termini propriamente spaziali che temporali, avere funzioni o modi di utilizzo a seconda che si utilizzi da lontano o da vicino, a contatto fisico o con lo sguardo;
- l’esposizione: ovvero la quantità di tempo per cui un utilizzatore è portato a stare a contatto diretto o indiretto con il progetto, caratteristica che si collega all’influenza che sul progetto hanno anche gli agenti atmosferici;
- la densità: indica la presenza relativa di un fattore nell’area in esame. Può riferirsi alla densità di popolazione, agli elementi naturali, alle attrezzature, ai suoni o agli odori.
Il ruolo del Designer
Nell’aprile del 1975, Muhammad Alì ricevette l’invito a tenere un discorso per la cerimonia di laurea all’Università di Harvard di fronte a più di duemila neo-laureati. A conclusione del suo discorso e dopo un boato di applausi dal pubblico venne “sfidato” a declamare una poesia. Alì rispose recitando quella che viene considerata la poesia più breve della storia. “Me, We” cioè “Io, Noi”.
Quando la creatività smette di essere un atto esclusivo umano, si ridefinisce anche la funzione del designer. Nei processi di progettazione tradizionali, il designer si pone molto spesso o viene chiamato a lavorare in qualità di agente risolutore di un problema, in un sistema binario problema-soluzione dove entrambe le componenti sono sovente appartenenti al mondo umano, escludendo quindi la non-umanità e il designer è una componente esterna posta in posizione di superiorità. Alcuni ambiti tangenti al mondo del design, come ad esempio la cucina, invece, hanno molte componenti relazionali e il lavoro di chi si occupa della preparazione dei cibi può essere di ispirazione per il lavoro del designer relazionale. Se pensiamo ad alcuni processi della cucina, come la lievitazione del pane, si comunica in maniera chiara un processo relazionale: una serie di agenti, umani e non umani ognuno con una funzione e uno scopo comunicano e hanno un ruolo nella progettazione (la temperatura, i batteri del lievito, le mani di chi impasta).
Il prodotto del design relazionale è una scia di traiettorie che il designer ha il compito di tracciare e comunicare, di raccontare la narrazione delle biografie che si delineano. Wakkary, nel suo libro “Things we could Design” analizza la parola biografia dal punto di vista etimologico, come un’unione di bios (vita) e grafè (scrittura). Ciò che un designer progetta, con grande probabilità sopravviverà alla propria biografia personale, per questo motivo ha il delicato compito di scrivere biografie condivise alter-umane in sintonia con ciò che si produce nel mondo e con ciò che ci si lascia alle spalle, tenendo presente tutte le componenti in un processo poetico, di poiesis, inteso dal punto di vista semiotico, ovvero il processo di emergenza di qualcosa che prima non esisteva.
Le fasi del Progetto Relazionale
Il progetto Relazionale è soprattutto la progettazione di una comunicazione salutare ed equilibrata di tutte le entità in un dato ambiente. Per progettare al meglio bisogna partire da un linguaggio comune, da un alfabeto. Per questo motivo possiamo riassumere le fasi del progetto relazionale nel modello ABCDE che parla un linguaggio relazionale:
- Access: L’introduzione, l’acquisizione delle informazioni e di tutti gli elementi utili alla giusta progettazione, corrisponde alla fase di analisi;
- Built: La fase di costruzione, in cui si sviluppa il modello progettuale, che tiene conto e coinvolge tutte le entità;
- Continuation: La fase di costruzione dello scenario di sopravvivenza del progetto, della sua curva di crescita;
- Deterioration: Qualsiasi relazione, in quanto tale non è eterna, statica ma in continua trasformazione, e la trasformazione comporta un deterioramento dello stato presente che è il secondo tipo di scenario da tenere presente;
- Ending: È la fase di conclusione del progetto in cui si immagina lo stato finale del lavoro e la sua legacy, le tracce che possa lasciare, le traiettorie segnate.
Dalla panchina da cui sto scrivendo queste riflessioni mi viene da eleggere questo oggetto come cosa relazionale per eccellenza poiché, per chiudere con le parole di uno di coloro che reputo un Maestro del Design, ovvero Ugo La Pietra, la panchina non è solo un luogo per una piacevole sosta ma anche un osservatorio da cui è possibile guardare, intravedere, contemplare e, aggiungo, progettare, verso un design relazionale.
di Emilio Lonardo