Progettazione sostenibile + IA = deep design
Processi ecologici, biomateriali, algoritmi generativi e intelligenza artificiale: benvenuti nel mondo nuovo di ecoLogicStudio, dove natura e tecnologia lavorano insieme alla ricerca di paradigmi inediti per la società del futuro.

Un tempo sarebbero stati chiamati alchimisti. Claudia Pasquero e Marco Poletto sono i fondatori di ecoLogicStudio, avviato a Londra nel 2005 e da qualche mese con una sede anche in Italia, a Torino. Il duo da sempre è impegnato in una costante ricerca che fonde biotecnologia e design. La loro è una visione decisamente innovativa dell’architettura, dove la componente tecnologica e strutturale è intrinsecamente legata a quella naturale. Sostenibilità, IA, urbanistica assumono nuovi significati nel vocabolario di EcoLogic, che però è ben lontano dal rimanere confinato su un piano astratto. L’intervista ci porta in un mondo che, in parte, è già qui, basta solo saperlo guardare. Claudia e Marco ci spiegano come.
Qual è il filo conduttore/obiettivo della vostra ricerca a 360 gradi?
La nostra ricerca è volta a promuovere l’ecologia in campo architettonico e urbanistico, dove per ecologia non intendiamo solo sostenibilità dei materiali ed economia circolare, ma anche un’ecologia mentale e di benessere. Questi livelli li vediamo intersecati, l’architettura e l’organizzazione dello spazio così come della città sono per noi un mezzo per implementare questi processi ecologici.
Il nostro assunto iniziale è che per pensare a una nuova sostenibilità si debba andare oltre la definizione tradizionale di natura, scendendo più in profondità e ripartendo dai sistemi fondamentali della biosfera stessa.
Deep Forest nell’ambito della mostra “Living Structures” da poco inaugurata presso il Louisiana Museum of Modern Art, a 30 minuti da Copenaghen, è una panoramica sulla nostra ricerca recente. Noi partiamo dagli organismi che hanno creato la biosfera, le microalghe e i miceli hanno contribuito allo sviluppo della vita più complessa che poi si è evoluta nella biosfera. La nostra idea è partire da questi organismi per creare una nuova sfera del costruito.


Quali sono i materiali che attualmente ritenete più interessanti per il vostro lavoro e perché?
Noi non parliamo mai di materiali come categoria merceologica, ma piuttosto come sistema o processo, lavoriamo con sistemi materiali e processi materiali. Uno dei nostri processi più conosciuti è il sistema PhotoSynthetica, che integra giardini di microalghe nell’ambiente abitato: cresce biomassa e nello stesso tempo consente alla biomassa di diventare nutriente, cibo, energia o bio materiale ricavato dallo sviluppo di biopolimeri stampati in 3D.

Al momento stiamo lavorando col ciclo micotico, lo abbiamo studiato per diversi anni e ora pensiamo sia pronto per essere applicato in sviluppi architettonici. In questo caso si tratta di lavorare con microorganismi, dotati di una propria intelligenza, in grado di metabolizzare alcuni rifiuti della città e trasformarli in cibo o materie architettoniche.
Partendo dalla fotosintesi e dai miceli, negli anni abbiamo sviluppato sistemi tecnologici e materiali per creare componenti di arredo o architettura. Col micelio, per esempio, abbiamo fatto colonne o sedute. Con le microalghe siamo partiti da dei reattori integrati nello spazio per ottenere dei polimeri biodegradabili, sostituti della plastica, che si possono impiegare in modi diversi, noi li abbiamo usati per costruire sgabelli e altri oggetti di uso quotidiano. L’intento è quello di creare economia circolare con questi organismi che noi siamo sempre più capaci di integrare e coltivare nello spazio costruito. Ci piace creare una connessione diretta fra spazio e materia: si parte da un sistema materiale che si articola nel tempo e nello spazio e che a sua volta genera materia, componenti o sistemi.

In che modo utilizzate l’IA? che prospettive pensate possa offrire sul lungo periodo alla vostra ricerca?
Di solito lavoriamo con l’IA partendo da un punto di vista speculativo, per noi è importante capire come ci si interfaccia con intelligenza artificiale o biologica per trasformare le città in cui viviamo.
Abbiamo lavorato moltissimo con la pattern recognition: come linguaggio visuale è presente sia alla scala territoriale, quando si osserva la città dal satellite, sia alla scala del microorganismo come processo di ottimizzazione, per esempio nella restituzione di risorse. Mettendo in relazione questi aspetti visuali tramite interfacce IA abbiamo creato dei sistemi che ci permettono di visualizzare come la città del futuro si possa evolvere.
L’IA ci apre una finestra: tramite algoritmi generativi possiamo guardare al mondo naturale con una prospettiva diversa, che la nostra percezione quotidiana non ci offre, e tradurla in una nuova visione per il costruito. Grazie a questo approccio possiamo sostituire la prospettiva geometrica che da tempo orienta lo sviluppo della città con una concezione dinamica, biologica, resiliente, evolutiva. Queste sono tutte caratteristiche che fanno parte degli organismi con cui lavoriamo, ma devono essere tradotte in linguaggio progettuale. Tramite gli strumenti di IA, gli algoritmi generativi con cui si può lavorare anche in ambito design, si riesce a compiere questa traduzione, arrivando così a creare dei modelli di pianificazione basati su questa nuova prospettiva.

Per immaginare la città del futuro, dobbiamo ridefinire la nostra comprensione della natura e della sua relazione con il costruito. Si tratta di passare da una mentalità cartesiana a quella dei sistemi complessi. È un passaggio che la scienza ha fatto da tempo, ma che nel quotidiano ancora stenta a orientare le decisioni e le pratiche. Pensiamo per esempio al cambiamento climatico: le politiche attuali sono basate su una visione della natura come se fosse una macchina, che invece non è.
Deep green è il titolo del libro che avete pubblicato nel 2023, a cosa vi riferite?
Ci riferiamo alla necessità di una maggiore profondità di visione, quando guardiamo alla natura, ma anche al deep learning, ovvero a un livello di comprensione più approfondito che l’IA e gli algoritmi generativi ci permettono di raggiungere. Se le nuove tecnologie vengono usate in modo convenzionale restituiscono risultati convenzionali, c’è bisogno di uno shift. Questo è uno sforzo che i mondi del design, dell’arte e della cultura devono fare perché altrimenti l’industria utilizza questa risorsa tecnologica per i soliti scopi di efficienza, produttività, estrazione massima di capitale dalla natura. Dobbiamo invece capire come creare nuovi metodi e modelli culturali per applicare la tecnologia in modo da evolvere in una nuova società.
È difficile trovare degli interlocutori adatti?
Come in tutti gli ambiti, l’industria preferisce utilizzare determinate risorse e sistemi produttivi, qualsiasi tecnologia che abbia una capacità di rottura dell’ordine delle cose farà fatica. Però, in un ragionamento al contrario, ci chiediamo: perché le università di design non tengono corsi di biodesign? Se tutti i giovani emergenti avessero la capacità di lavorare con queste tecnologie allora, entro certi limiti, si potrebbe creare un movimento inarrestabile. Secondo noi il cambiamento arriva anche dal basso, non è solo questione di interlocutori adatti, ma anche di cultura. La professione dell’architetto deve evolvere e riacquisire rilevanza tramite l’impatto di queste tecnologie. Chiaramente bisogna imparare a usarle e non tutti hanno voglia di aggiornarsi continuamente.

Quali sono oggi la funzione e la responsabilità di design e architettura secondo voi?
Pensiamo sia necessario uno spostamento del paradigma: dall’identificare l’architettura come un elemento di protezione dall’ambiente al considerarla come un elemento dinamico che permette di creare una relazione in grado di comunicare con l’ambiente. Se nel Rinascimento l’architettura era definita tramite la vista prospettica, che crea una struttura di framing di controllo sull’ambiente perché all’epoca era molto aggressivo, oggi ci troviamo in una situazione in cui è l’uomo a essere diventato aggressivo nei confronti dell’ambiente. L’architettura non ha più il compito di proteggerci, ma possiamo concepirla tramite disegni e simulazioni dinamiche per trasformarla in un elemento che ci aiuti a entrare in relazione con i processi ecologici. Quindi non più mattone, ma giardino, alga, fungo che a loro volta diventano prodotto, cibo e tutto ciò che è parte delle nostre città ma che solitamente viene vissuto come separato dall’elemento architettonico. Per noi non c’è più differenza fra industria, paesaggio e architettura, esiste una nuova architettura più dinamica, dove è il designer a coordinarne i processi.