Matteo Ward e il potere/dovere della re-immaginazione per limitare il sovraconsumo

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Reinventare un sistema produttivo da zero per renderlo più sostenibile, nella moda come nel design. Complesso, ma non impossibile secondo Matteo Ward, co-fondatore di WRÅD.

Matteo Ward e il potere/dovere della re-immaginazione per limitare il sovraconsumo
Matteo Ward. Foto Paolo Musa.

Se lo puoi immaginare lo puoi fare: la famosa citazione attribuita a Walt Disney calza a pennello anche per l’attività che porta avanti Matteo Ward, classe 1986, amministratore delegato e co-fondatore di WRÅD, benefit corporation e studio di design dedicato all’innovazione sostenibile e al cambiamento sociale. Nonché vincitore del Best of the Best RedDot Design Award, finalista al Green Carpet Challenge Awards, selezionato dall’ADI Design Index e finalista al Compasso d’Oro 2019.

Oltre ad affiancare le aziende nel loro percorso verso una maggiore sostenibilità, Matteo Ward ha pubblicato nel mese di settembre scorso Fuorimoda! Storie e proposte per restituire valore a ciò che indossiamo, edito da De Agostini, per sensibilizzarci al tema di una moda sostenibile per davvero. L’anno prima, con lo stesso intento, ha realizzato Junk- Armadi Pieni, una docu-serie di 6 episodi, ciascuno dedicato a un luogo o Paese diverso, per raccontare le implicazioni derivanti dal sovraconsumo occidentale della moda e del conseguente sfruttamento economico di questi luoghi.

Non solo abiti e accessori: cosa implica un sistema moda non sostenibile, quali sono i suoi impatti e su chi/cosa?

Esatto, la moda non è solo abiti e accessori, ma un ecosistema complesso di arti, scienze, persone ed elementi naturali, tutti ingredienti che, se ben mescolati tra loro, hanno la capacità di generare un inestimabile valore sotto molteplici punti di vista. Tuttavia, a oggi non si è ancora trovata la formula corretta per un giusto equilibrio tra tutti questi fattori. Da circa 400 anni, il sistema moda si regge infatti su un disequilibrio cronico fondato su sovrapproduzione e sovraconsumo, questo la rende una delle industrie più impattanti al mondo. Ogni anno vengono prodotti oltre 100 miliardi di capi d’abbigliamento di cui nessuno, a oggi, ha realmente bisogno, realizzati con risorse essenziali alla preservazione della vita sul Pianeta.

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Inquinamento nel sud-est asiatico. Foto by neenawat khenyothaa – Shutterstock

E l’impatto si manifesta su più livelli: sul piano umano, poiché molti dei vestiti che indossiamo sono realizzati con materiali o trattati con sostanze potenzialmente tossiche per il nostro organismo. Su quello sociale, in quanto milioni di lavoratori del settore continuano a non percepire salari dignitosi. Infine, su quello ambientale: l’enorme quantità di capi e accessori immessi sul mercato è difficilmente riciclabile e smaltibile, contribuendo all’inquinamento degli ecosistemi naturali in ogni fase del ciclo di vita dei prodotti, dalla progettazione al fine vita.

Nel tuo libro hai preso le linee guida per un’alimentazione equilibrata e le hai applicate alla moda, creando un parallelismo. Puoi farci qualche esempio?

Sono partito da una riflessione: le risorse utilizzate dall’industria tessile per produrre un capo di abbigliamento sono le stesse impiegate per produrre il cibo, ovvero terra, acqua, aria, energia e lavoro delle persone. Da qui è nato un esperimento: ho preso le linee guida per una corretta alimentazione del Ministero della Salute e ho sostituito le parole “alimenti” e “cibo” con “vestiti”. Funziona! Ne è nato un decalogo di semplici accorgimenti per costruire un rapporto più consapevole con ciò che indossiamo ogni giorno. Per esempio, così come dovremmo aumentare il consumo di frutta e verdura, dovremmo prediligere fibre naturali nel nostro armadio. Oppure: se per evitare il mal di pancia non ci abbuffiamo, perché non applicare lo stesso principio anche al nostro guardaroba, che spesso scoppia di vestiti inutilizzati? Nessuna regola rivoluzionaria, ma semplici principi che impariamo fin da piccoli. Basta applicarli anche alla moda, con un po’ di attenzione, e il gioco è fatto.

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Oltre alla necessaria denuncia, cosa si può fare praticamente per avvicinarci a un sistema moda – e a un modello produttivo in generale – davvero sostenibile?

Un sistema moda “davvero” sostenibile è, a oggi, un obiettivo impossibile da raggiungere. Citando Enzo Mari, dobbiamo piuttosto intendere la sostenibilità come un’utopia necessaria, una sorta di corrimano etico che guida le scelte e orienta gli obiettivi. Un modello produttivo pienamente sostenibile è una contraddizione in termini, ma questo non significa che non si possa tracciare una via d’uscita. Il primo passo è senza dubbio la consapevolezza: non possiamo cambiare ciò che non vediamo! Da qui, è necessario adottare un approccio trasversale che riallinei la produzione tessile alle reali esigenze delle persone, garantendo un equilibrio con gli ecosistemi con cui interagiamo. Oggi, il vero nodo sta nel ripensare il modello produttivo trovando una nuova armonia tra funzione, tecnica e forma. Un compito complesso, senza dubbio. Ed è proprio per questo che ogni attore coinvolto ha un ruolo essenziale: dal consumatore ai brand, dalla filiera ai designer, fino ad arrivare ovviamente alle istituzioni politiche. Nessuno è escluso dalla responsabilità di questo cambiamento.

In quest’ottica dove sta la vera innovazione?

L’innovazione risiede nel re-immaginare il ruolo dei vestiti che indossiamo ogni giorno, creando prodotti in grado di valorizzare tutte le risorse impiegate nel processo creativo e produttivo, restituendo valore economico, sociale e culturale lungo l’intera filiera. E attenzione, non si tratta di un processo innovativo, anzi. Ci sono molti imprenditori, artisti, filosofi, fashion designer e pensatori rivoluzionari del passato che con il loro pensiero possono ancora oggi indicarci una strada per trasformare il concetto stesso di abito, sulle rinnovate esigenze del presente.

Ci vuoi parlare di Certilogo, di cui sei stato testimonial nella campagna “All About Trust”?

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Cover della video-campagna “All About Trust” di Certilogo prodotta da WRÅD

Ogni anno vengono venduti prodotti contraffatti per un valore complessivo di circa 2 trilioni di dollari, oltre il 95% di quelli registrati si è dimostrato pericoloso per la salute. Combattere la contraffazione è fondamentale, non solo per i brand, ma per la sicurezza di tutti. Certilogo opera come una sorta di “macchina della verità” nei confronti dei prodotti di moda: o sei autentico, o non lo sei; o è vero, o è falso. Questo è il concetto alla base della campagna All About Trust: potersi fidare di ciò che compriamo e di ciò che entra in contatto con la nostra pelle. Presto, i Digital Product Passport diventeranno obbligatori in Europa – uno dei punti cardine della legge sull’Ecodesign – per garantire maggiore trasparenza sulla provenienza e sugli attori coinvolti nel processo produttivo.

In un’altra intervista hai dichiarato: “L’insostenibilità della moda è il sistema. Molti pensano di cambiare la moda, ma in realtà bisogna cambiare tutti i codici che hanno forgiato la nostra cultura, come il capitalismo. Il capitalismo è figlio della moda. La rivoluzione industriale è la rivoluzione della moda, ed è nata per quello”. Secondo te, quanto siamo lontani dall’obiettivo di trovare un modello alternativo al capitalismo?

Chi, secondo te, può teorizzare un nuovo paradigma? Il capitalismo ha plasmato la nostra sfera cognitiva. Il problema risiede nel fatto che non abbiamo ancora immaginato una strada alternativa. Il capitalismo rispecchia perfettamente il sistema antropocentrico in cui viviamo, e il termine “antropocene” è fin troppo romantico per descrivere la realtà: l’uomo ha creduto di poter ignorare ogni limite naturale ritenendosi superiore e separato dall’ecosistema di cui, in realtà, fa parte. Tutti noi possiamo catalizzare un cambiamento positivo, ma ciò è possibile solo se prima re-immaginiamo il sistema attuale basato su sovrapproduzione e sovraconsumo.

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Inquinamento da fast fashion in Ghana. Foto by Delali Adogla-Bessa – Shutterstock

 

Secondo te, il mondo dell’arredo soffre delle stesse criticità del fashion?

Diciamo spesso che attraverso il design di un abito possiamo influenzare habitat e abitudini. Cosa sono, in fondo, i vestiti se non degli “spazi” portatili che abitiamo? Il modo in cui costruiamo e arrediamo le nostre case rivela molto di noi, tanto quanto il fit della maglietta o il lavaggio dei jeans. Nel mio percorso mi sono imbattuto nel lavoro di grandi progettisti, che mi hanno fatto comprendere l’importanza del ruolo del designer, indipendentemente dal settore. Non c’è nessuna differenza tra il disegnare una gonna e progettare una sedia. Victor Papanek ci sprona a chiederci: La funzione risponde davvero ai bisogni del mondo reale?

Questo per dire che sì, il mondo dell’arredo e quello del fashion soffrono delle stesse criticità. Il settore dell’interior design, come quello della moda, spesso realizza oggetti che risultano esercizi stilistici poco funzionali, di bassa qualità, soggetti alle mode e, di conseguenza, con una bassa durabilità fisica ed emotiva, destinati quindi a diventare scarto in breve tempo. E se ci riappropriassimo, nella moda come nell’interior, della nostra capacità innata di progettare per mettere in discussione uno status quo che non funziona, invece che perpetuarlo, cosa accadrebbe?

Daniela Giambrone
Ho una laurea in Scienze e Arti della Stampa, lavoro nel settore editoriale dal 1996, prima come redattrice in diverse realtà, dal 2005 come giornalista. Oggi sono freelance e mi occupo in particolare di lifestyle e design, beauty e coiffure.