I data center del futuro: a misura d’uomo e di ambiente
Non più luoghi desolati e anonimi. I data center in Italia sono in forte sviluppo, presentando nella loro progettazione sfide che necessitano di soluzioni innovative e creative. Ne parliamo con Pietro Matteo Foglio, CEO di In-Site.

È recente la notizia che lo studio Gensler – considerato una delle principali firme di architettura, con 53 sedi in Asia, Europa, Australia, Medio Oriente e America – ha progettato due data center per Microsoft attualmente in costruzione in Virginia, negli Stati Uniti. I centri sono stati pensati a due piani, con una struttura principale in acciaio posta sopra una base in cemento con legno lamellare a strati incrociati (CLT) utilizzato per costruire i piani superiori. Secondo Microsoft, che gestisce oltre 300 data center in tutto il mondo, le strutture in legno ridurranno l’impronta di carbonio dei nuovi data center del 35% rispetto alle costruzioni in acciaio convenzionali e del 65% rispetto al tipico calcestruzzo prefabbricato.
Questa notizia conferma il grande interesse a livello internazionale intorno al tema dei data center, che ha raggiunto anche noi in Italia, dove il mercato sta vivendo una fase di forte espansione, con l’area di Milano fra i protagonisti. Il quadro descritto da un recente studio del Boston Consulting Group trova conferma nei dati dell’ultima ricerca dell’Osservatorio Data Center del Politecnico di Milano, pubblicata a metà gennaio scorso: la dinamica positiva di questo settore si individua in una spesa di 5 miliardi di euro sostenuta nell’ultimo biennio per la costruzione e l’approntamento di queste infrastrutture informatiche, mentre ulteriori 10,1 miliardi sono previsti per il biennio 2025-2026. Sullo sfondo iniziano a emergere un numero crescente di nuove aperture previste oltre il 2026, che potranno ulteriormente alimentare il giro d’affari della filiera italiana. In costante progressione (fra 2023 e 2024 l’incremento è stato del 17%) è anche il valore della co-location, cioè la messa a disposizione di spazi dei data center per il posizionamento dei server.
A livello europeo lo scenario si è storicamente sviluppato intorno alle città del FLAPD (Francoforte, Londra, Amsterdam, Parigi e Dublino). Da circa due anni, però, questi mercati hanno subito un rallentamento. L’interesse degli investitori si è quindi spostato verso mercati emergenti, come Spagna, Polonia, Svezia, Norvegia e anche Italia. Il nostro Paese, infatti, presenta punti di forza competitivi come il ruolo di quarta economia europea per PIL, il florido tessuto economico locale e la sua posizione strategica nel Mediterraneo.
Lo conferma anche Pietro Matteo Foglio, architetto e CEO di In-Site, società di ingegneria integrata. Fondata a Milano nel 2006 e specializzata nella creazione di data center e ambienti tecnologici avanzati, è diventata un punto di riferimento grazie a una visione che combina efficienza operativa, impatto sociale positivo e rispetto per l’ambiente.
Secondo la sua esperienza, perché l’Italia e Milano stanno riscuotendo tanto interesse?
Sicuramente per le caratteristiche del nostro territorio e del patrimonio a disposizione, adeguato anche per il recupero delle location. L’altro tema è che le grandi capitali dei data center ormai sono sature, da Amsterdam a Dublino. Bisogna apportare un cambio di visione, ragionando sul fatto che è necessario diversificare. Al momento sono due le città sotto i riflettori: Milano e Madrid. Per la politica di diversificazione Milano è interessante, ma presenta il punto debole del costo energetico e non è in grado di soddisfare tutta la domanda. Madrid ha un vantaggio notevole perché in Spagna l’energia costa la metà. Personalmente sono convinto che, nel momento in cui si decide di diversificare sul territorio, tutte le regioni del nostro Meridione potenzialmente possono fare la differenza perché sono un ponte verso l’Africa: la Sicilia, per esempio, gode di una posizione molto strategica.

Come possiamo definire un data center?
La peculiarità del data center è quella di custodire i dati, ma non è semplicemente un contenitore di server, piuttosto è da considerare come una macchina tecnologica il cui obiettivo è garantire il funzionamento sempre, la cosiddetta business continuity, ovvero la continuità del servizio. Per assolvere questa funzione è dotato di infrastrutture impiantistiche elettriche, di potenza e meccaniche. Il dato, nel momento in cui viene stoccato e depositato, comporta una grande dissipazione di calore, implicando pertanto anche un aspetto termodinamico.
La caratteristica principale di un data center è la ridondanza. Usando una metafora, lo possiamo immaginare come un corpo umano estremamente evoluto in cui gli organi vitali sono doppi: due cuori, quattro polmoni, quattro reni… Questi sistemi si parlano e si confrontano nella percezione del funzionamento. Se un cuore è affaticato o è stanco, l’altro percepisce subito questa difficoltà e si prende un carico maggiore.
Rispetto al passato, quali sono i tratti del data center del futuro di cui voi vi state occupando?
I data center sono infrastrutture che hanno cominciato a diffondersi immediatamente dopo lo sviluppo delle telecomunicazioni. A metà degli anni Novanta sono nate le prime grandi centrali telefoniche, con i primi grandi operatori. I data center sono l’evoluzione di quel tipo di infrastrutture e hanno cominciato a svilupparsi negli anni 2000. Negli anni Dieci le dimensioni erano già importanti e, sebbene si fosse ancora lontani dal considerare le tematiche ambientali, già allora si è cominciato a porsi delle domande sull’efficientamento energetico.
Sempre in quegli anni ha preso forma una geografia dei data center. I primi a essere realizzati sono stati quelli di grande potenza, chiamati hyperscale o wiperscaler, cui si affiancavano i corporate data center, di potenza inferiore, appartenenti a quelle società che decidevano di custodire i dati internamente. Nel tempo si sono aperti data center non necessariamente corporate, ma comunque di dimensioni più ridotte, ovvero gli edge data center. Grazie a questi ultimi, In-Site ha avuto l’opportunità di cogliere delle sfide e progettare data center in contesti molto inusuali, da una chiesa sconsacrata a una miniera. L’evoluzione a cui il nostro studio va incontro oggi, pertanto, riguarda la loro distribuzione sul territorio: sono destinati a popolare il tessuto urbano in ogni forma.

Parliamo di Intacture, il data center in costruzione nella Val di Non, in Trentino.
Si tratta del primo data center in Europa ubicato all’interno della miniera di dolomia attiva dell’azienda Tassullo. Si distingue per la sua struttura ipogea, con l’80% dell’infrastruttura situata fino a 100 metri di profondità. Il progetto è stato concepito come un polo di innovazione che mette in dialogo dati, competenze e persone. Nella parte superiore, l’Acropoli rappresenta l’infrastruttura tecnologica e le macchine, mentre nella parte inferiore, l’Agorà è lo spazio pensato per l’uomo, dove il dato si integra con le persone.
Volevamo creare uno spazio che non fosse solo funzionale, ma che interagisse con l’ambiente e il territorio. Intacture presta un’attenzione particolare alla sostenibilità e al rispetto del contesto naturale in cui è inserito. In questo caso abbiamo utilizzato la nostra capacità di progettare in modo flessibile, ci siamo impegnati nel capire gli aspetti estremamente positivi della location per renderli concreti. Inserito all’interno del PNRR, prevede una prima fase in cui la prima macchina si dovrà accendere entro dicembre 2025.

A Padova invece avete completato un edge center?
Nehos è stato costruito riutilizzando un capannone dismesso per servire le comunità locali. I capannoni solitamente non sono considerati adatti perché sono molto alti, mentre le sale server è meglio siano dislocate in volumi ridotti, se si ha a disposizione uno spazio più ampio lo si deve trattare. Non è una sfida impossibile e noi abbiamo cercato di sposare questa caratteristica morfologica dei capannoni, alti circa 10-12 m. Abbiamo presentato al cliente la possibilità di fare una passerella aerea dalla quale si può vedere dall’alto la struttura e l’organizzazione. Un plus, se pensiamo alla necessità di mostrare l’infrastruttura a uno stakeholder o a un visitatore durante quelli che chiamano gli open day dei data center.
Quali sono i trend generali di innovazione progettuale?
Sicuramente la sostenibilità è il driver principale. Ci si sta muovendo sull’utilizzo di fonti rinnovabili per l’alimentazione energetica: per esempio si sta cominciando a immaginare di posizionare queste infrastrutture immediatamente a ridosso delle aree in cui c’è la produzione di energia pulita.
Si sta riflettendo molto anche sull’accumulo o immagazzinamento dell’energia. I data center presentano un limite quando si verifica un blackout. Le macchine UPS sono organi di emergenza che però hanno una durata di tempo limitata a 20 minuti. Nel momento in cui tutti questi gruppi di continuità smettono di garantire il funzionamento, entrano in azione i gruppi elettrogeni, ovvero dei grandi motori di nave a gasolio che partono in automatico e proseguono fino alla fine del blackout, come era successo per esempio dopo l’evento dell’11 settembre. I gruppi elettrogeni sono macchine chiaramente inquinanti, si deve trovare una soluzione: le batterie di accumulo rappresentano una prima alternativa, ma ci sono studi per trovare nuovi modi di immagazzinare energia.
Infine, il tema della dissipazione del calore rappresenta un altro filone di ricerca: al momento si parla di liquid cooling o immersion cooling. Il tema delle alte densità (e quindi della necessità di refrigerazione) si presenta con data center legati a centri di ricerca tipicamente universitari, solitamente collocati in locali molto piccoli dove il liquid cooling potrebbe rivelarsi una buona soluzione. L’immersion cooling, che prevederebbe l’immersione vera e propria dei server in un liquido refrigerante, consentirebbe di risolvere il problema in modo molto efficace, ma attualmente presenterebbe costi elevatissimi.
